ANCORA A PROPOSITO DELLE ORIGINI DELLA CHIESA DI SAN LEONE A CAPENA

Già in un articolo pubblicato in questo blog il 16 settembre 2018 era prospettata l’ipotesi di una collocazione storica della costruzione della chiesa capenate di San Leone in un contesto – quello del IX secolo d.C. – segnato dall’incombere della minaccia rappresentata dalle scorrerie dei predoni saraceni (=islamici) nel Lazio. Tale ipotesi può essere ora meglio precisata sulla base di alcune interessanti informazioni fornite dallo storico locale morlupese Sergio Mariani nella sua opera “Morlupo. Notizie storiche e documenti”, 1980, pag. 76 e seguenti. Ivi (pagg. 76-77) si legge: “Il primo documento di Morlupo è del IX secolo e riguarda una lapide in memoria del fondatore della chiesa locale, il conte Giovanni di Leone. L’iscrizione è scolpita su una lastra di travertino molto corroso, di cm. 120x60x10, ed oggi è posta in evidenza all’interno della chiesa parrocchiale di S. Giovanni Battista, tra le due porte d’ingresso. Fu scoperta nel 1592-93 durante i lavori di ampliamento e ricostruzione della facciata della chiesa parrocchiale e affidata dall’allora arciprete Migliacci a suor Caterina Paluzzi”. Nel testo (pag. 77) vi è quindi una riproduzione para-fotografica del testo della lapide, la trascrizione del quale è la seguente:

                                                 + INC REQUIESCIT IN PACE

                                                     IOHANNIS COMI FILIUS

                                                   DE LEO DUX QUI ISTA ECCLE

                                                     SIA EDIFICABIT QUI DEFU

                                                    NTUS FUIT IN MENSE IULIO DIE

                                                    XVI TEMPORIBUS DOMNO IOH

                                            VIIII PAPA INDICTIONE PRIMA EGO PE

                                                     TURNIA NOBILISSIMA FEIMA

                                               MAGNIO MIO AMORE FIERI ROGABIT

Traduzione data dal Mariani (ibidem): “Qui riposa in pace il conte Giovanni figlio di Leone, dux, che costruì questa chiesa e vi fu sepolto il 16 luglio della prima indizione del pontificato di Giovanni IX  (nota: Giovanni IX fu eletto al soglio papale nel dicembre 897 o gennaio 898, si insediò nel gennaio 898 o febbraio 898 e il suo pontificato ebbe termine il 26 marzo 900). Io Peturnia, nobilissima donna, per il mio grande amore ho pregato che fosse fatto” (è evidente che “edificabit” va letto/interpretato “edificavit”; lo stesso dicasi per “rogabit”).  

Chi era questo Giovanni di Leone “dux”? Il Mariani, al riguardo, rinvia ad un saggio di Giulio Buzzi, “Per la storia di Ravenna e di Roma”, pubblicato alle pagg. 107-213 del volume XXXVIII (1915) dell’“Archivio della Società romana di storia patria”. Le vicende storiche che fanno da cornice alla vita del personaggio menzionato nella lapide, l’identificazione del quale deve ritenersi ragionevolmente certa, sono piuttosto complesse. Il contesto generale è costituito dalle lotte che, dopo la fine dell’Impero Romano d’Occidente nel 476, l’invasione dei Longobardi nel 568 e l’entrata in scena dei Franchi verso la metà dell’VIII secolo, sono combattute in Italia. Così Paolo Giudici sintetizza la situazione come si configurava verso la metà del IX secolo (“Storia d’Italia dalla fondazione di Roma ai giorni nostri”, vol. II, Firenze 1957, pag. 164): “Quando fu concluso il famoso trattato di Verdun (843: nota mia), che pose fine all’unità dell’impero carolingio, l’Italia era politicamente divisa in quattro parti: l’Italia franca che comprendeva tutta la parte settentrionale e la Tuscia longobarda; l’Italia papale che constava dell’Esarcato, della Pentapoli e dell’antico ducato romano; l’Italia longobarda formata dai ducati di Spoleto e di Benevento, dei quali il primo vassallo dei Franchi, il secondo indipendente; e infine l’Italia bizantina costituita dal ducato di Calabria (Terra di Otranto e Bruzio) e dai ducati di Venezia, Napoli, Gaeta ed Amalfi sui quali la dominazione bizantina era più nominale che effettiva”. Quanto all’Esarcato e alla Pentapoli, già sotto il dominio bizantino (cioè dell’Impero Romano d’Oriente) e poi passate sotto il dominio temporale pontificio, così il Giudici (op. cit., pag. 93) individua, con riferimento alla fine del VII secolo, quando ancora erano soggette all’Imperatore d’Oriente, le rispettive circoscrizioni territoriali: l’Esarcato “si estendeva a nord fino all’Adige, al Tartaro e alla confluenza del Panaro col Po, ad ovest fino al corso del Panaro e all’Appennino, a sud fino alla Marecchia” (comprendeva le città di Ravenna e di Bologna); il “Ducato della Pentapoli” confinava “a nord con la Marecchia, ad ovest con l’Appennino e a sud con l’Esino”, diviso in Pentapoli marittima, comprendente Rimini, Pesaro, Fano, Sinigaglia, Ancona, e in Pentapoli annonaria, comprendente Urbino, Fossombrone, Jesi, Cagli, Gubbio. Circa l’organizzazione amministrativa dell’Italia bizantina scrive ancora il Giudici (op. cit., pag. 94): “A capo dei domini bizantini della penisola stava l’Esarca, che aveva anche il titolo di patrizio e governava in nome dell’imperatore. Egli aveva il supremo potere militare, civile e giudiziario; da lui dipendevano le finanze, i lavori pubblici e gli affari ecclesiastici. Nominava e revocava i funzionari, giudicava in appello, vigilava sulle elezioni episcopali, sorvegliava ed approvava l’elezione del papa. Risiedeva a Ravenna […] L’amministrazione provinciale dalle mani dei iudices provinciarum, eletti dal vescovo e dagli ottimati, era passata in quelle di capi militari detti duces o magistri militum. Il dux non era solo il capo militare della provincia, ma anche il governatore civile; di solito era eletto dall’Esarca e da questo dipendeva; ma in seguito alcuni duchi si emanciparono dall’Esarca e passarono – come quelli di Venezia, di Napoli, di Roma e della Calabria – alle dirette dipendenze dell’imperatore, da cui vennero anche eletti”. Nel 751 il re longobardo Astolfo invase l’Esarcato, s’impadronì di Ravenna e il ducato di Spoleto fu annesso al regno longobardo, facendosi minacciosa la situazione per lo stesso ducato romano (ivi, pag. 116); essendosi poi spezzato nell’agosto 753 il debole vincolo che univa la Chiesa romana all’Impero Romano d’Oriente, in conseguenza del “concilio costantinopolitano confermante la politica iconoclasta di Leone, seguita da Costantino Copronimo” (ivi, pag. 117), papa Stefano II, non potendo più contare sull’appoggio imperiale, sostituì il protettorato franco a quello bizantino e così “fu il vero iniziatore del principato civile della Chiesa” (così uno storico citato dal Giudici a pag. 118 della sua opera menzionata), sicché, non avendo poi avuto esito i tentativi pacifici d’indurre il re longobardo Astolfo a cedere alla Santa Sede i territori che erano stati dei Bizantini, Pipino scese in Italia e costrinse Astolfo a venire a patti e ad assumersi quindi l’impegno di cedere Ravenna e le altre città occupate alla Santa Sede. Quindi, essendo Pipino tornato in Francia e avendo Astolfo, anziché adempiere ai propri obblighi, invaso il ducato romano, giungendo a minacciare la stessa Roma, Pipino tornò un’altra volta in Italia nel 756 alla testa di un esercito e sconfisse ancora Astolfo, il quale dovette nuovamente cedere, tra l’altro, Ravenna.

Delineate queste premesse storiche, è d’uopo ora considerare gli eventi più direttamente rilevanti per la tematica di cui al titolo. Il contesto storico ravvicinato è costituito dalle frizioni tra l’arcivescovo di Ravenna e il Papa romano, perseguendo il primo un programma “indipendentistico” volto a dare autonomia temporale, sotto la guida di detto arcivescovo, a territori già rientranti sotto la dominazione bizantina nell’Esarcato e nell’Emilia e poi, dopo la conquista longobarda e dopo l’intervento franco, passati sotto il potere temporale della Santa Sede. Scrive Buzzi (op. cit., pag. 108): “Verso la fine dell’850, morto Deusdedit, veniva eletto arcivescovo di Ravenna Giovanni X. Apparteneva alla famiglia dei Duchi Sergi e doveva la sua elezione a quel partito antipapale dalle cui file erano usciti gli arcivescovi Felice e Mauro. Conosciamo il programma politico di questo partito: autonomia dell’Emilia e dell’Esarcato da Roma e loro dipendenza politica ed ecclesiastica da Ravenna sotto il governo degli arcivescovi; la costituzione di un vasto dominio temporale simile a quello dei papi”. Esisteva tuttavia a Ravenna un partito romanofilo, contro il quale l’arcivescovo ravennate si accanì: “Forte della protezione imperiale e del favore della maggioranza della nobiltà ravennate, egli, coadiuvato dal fratello, il Duca Gregorio, cominciò lentamente ma sistematicamente ad accentrare in sé molti dei diritti pontifici su Ravenna: i partigiani del governo papale furono spogliati dei loro beni e delle loro cariche […]” (ivi, pag. 110). Nell’876, mentre le milizie di Lamberto di Spoleto saccheggiano il territorio romano, sono confiscati ancora “i beni dei partigiani del papa” su impulso del partito arcivescovile in Ravenna (ivi, pag. 125); il Mariani (op. cit., pagg. 78-79): “Nell’876 i Saraceni più volte osano mostrarsi alle porte di Roma, mentre il papa cerca di formare una coalizione di forze italiane da impiegare nella difesa di Roma e dell’Italia […] Della precaria situazione approfitta Lamberto di Spoleto, che tra settembre e dicembre dell’876 saccheggia il territorio romano […] Lamberto, alleatosi con i Saraceni, intensifica le rappresaglie in territorio pontificio e chiede ostaggi di fedeltà per l’imperatore. Al netto rifiuto del papa, penetra a Roma e tiene assediato per oltre un mese in S. Pietro Giovanni VIII. Dietro un lauto compenso toglie l’assedio e abbandona la città alla fine di marzo 878. Il papa, non più sicuro nella sua sede, per le insistenti voci di nuove invasioni, decide di riparare in Francia, presso Ludovico il Balbo. Così, via mare, protetto e scortato dai figli di Leone, Giovanni e Deusdedit, raggiunge nell’aprile la Francia”. Morto fra il settembre e l’ottobre dell’878 l’arcivescovo di Ravenna Giovanni X, gli succede nella carica il diacono ravennate Romano (Buzzi, op. cit., pag. 127), che prosegue sostanzialmente la linea politica del suo predecessore. Informato dell’elezione del nuovo arcivescovo di Ravenna, il papa Giovanni VIII, che al soglio pontificio era salito nell’872, rispose ordinando tra l’altro, al clero, al senato dei nobili e al popolo ravennati, oltre che al nuovo arcivescovo, di “reintegrare nei loro beni i duchi Giovanni e Deusdedit ai quali avevano confiscato molti fondi rustici e saccheggiato le case”, nonché di “proteggere i loro coloni e le terre ancora non sottoposte a confisca” (ivi, pagg. 127-128); sullo stesso punto scrive Mariani (op. cit., pag. 79): “Nel settembre dell’878, incoronato Ludovico il Balbo a Troyes, il pontefice fa ritorno in Italia, accompagnato da Bosone e dai fratelli Giovanni e Deusdedit, che ricevono l’incarico di risolvere la questione del ducato di Comacchio e la divergenza sui diritti pontifici nei monasteri di Comacchio e di Montefeltro”. Aggiunge il Buzzi a proposito dei fratelli Giovanni e Deusdedit (=Adeodato): “Johannes dux” e “Deusdedit dux et magister militum, figli di Leone maestro delle milizie, erano, insieme a Pietro e Paolo Traversaridel quale ultimo Deusdedit aveva sposato la figlia Maria, i capi del partito romanofilo in Ravenna. Ambedue avevano seguito Giovanni VIII in Francia e nella prima metà dell’879 erano ancora al suo servizio: Giovanni come ambasciatore pontificio presso Berengario del Friuli; Deusdedit come governatore del ducato di Ravenna e come capo supremo delle milizie pontificie nella spedizione di Comacchio” (ivi, pagg. 128-129). Prosegue Buzzi: “Come avviene sempre nei primi tempi che seguono una nuova elezione, l’arcivescovo Romano cerca, per affermarsi, il favore del partito avversario e permette perciò o riconosce le nozze tra Maria e Deusdedit”, nonostante un legame di parentela sussistente tra i due e suscettibile di essere considerato come impedimento canonico al matrimonio, ma in breve tempo i rapporti del papato e dei suoi seguaci con l’ambiente ravennate si guastano e “Deusdedit fu accusato d’aver contratto nozze incestuose ed ebbe con suo fratello Giovanni confiscati quasi tutti i suoi beni” (ivi, pag. 130). Il Buzzi descrive poi nel dettaglio le tensioni sempre più gravi tra il Pontefice da una parte e l’arcivescovo di Ravenna dall’altra (ivi, pagg. 130-132): si arrivò al punto che l’arcivescovo ravennate Romano lasciò che la moglie di Deusdedit fosse stuprata nel suo episcopio (ivi, pag. 132) e nell’ottobre 881 l’arcivescovo stesso fu colpito da scomunica (ivi, pag. 133), dopo la quale si sottomise formalmente al papa, senza tuttavia poi presentarsi a Roma, come gli era stato richiesto dal papa, cui non fece alcuna concessione, continuando anzi a perseguitare i seguaci del partito filopontificio ravennate (ibidem), mentre il clero ravennate nulla fece per consegnare al papa, e per lui al duca Giovanni suo governatore militare, il diacono Maiorano, che Giovanni VIII riteneva essere l’“anima nera” dell’arcivescovo Romano (ivi, pagg. 134-135). Morendo il 15 dicembre 882 (e non 883, come scrive Mariani a pag. 80 della sua opera succitata), Giovanni VIII, i cui ordini alla chiesa ravennate erano rimasti ineseguiti,  “lasciò la chiesa di Ravenna in pieno dissidio con Roma” (ivi, pag. 135).

Le vicende sopra descritte consentono di precisare l’ipotesi formulata nell’articolo pubblicato online il 16 settembre 2018 circa l’origine della chiesa di San Leone a Capena. I due fratelli Giovanni e Deusdedit, figli di Leone, tra i più importanti sostenitori di papa Giovanni VIII, proprio per tale loro posizione persero gran parte dei loro beni a Ravenna: nulla di più naturale che, per risarcirli delle fortissime perdite patrimoniali subite in seguito all’avversione loro implacabilmente manifestata dal partito antipapale a Ravenna, nonché per compensarli dei preziosi servigi che gli avevano resi, Giovanni VIII abbia concesso loro, o almeno a Giovanni, beni nella Tuscia romana, tra i quali poteva ben esserci non solo Morlupo – dove, a quanto sembra possa evincersi dalla lapide di cui sopra è stato riportato il testo, la chiesa, che divenne la parrocchiale, fu edificata da Giovanni di Leone, cui il territorio di Morlupo secondo Mariani fu assegnato in signoria (op. cit., pag. 76) e che “lottò spesso contro i Saraceni” (op. cit., pag. 80), i quali secondo Mariani arrivarono anche a Morlupo (op. cit., pag. 76) – ma anche il territorio contiguo che divenne poi quello del castrum Lepriniani, la cui chiesa di San Leone, la parte più antica della quale è datata al IX secolo d.C. (cfr. E. Calabri, “La chiesa di S. Leone”, in AA.VV., “Capena e il suo territorio”, Regione Lazio 1995, III.3.7, pag. 241, testo e nota 2), può non implausibilmente ipotizzarsi che sia stata, nel penultimo o ultimo decennio di quel secolo, fondata da quello stesso Giovanni di Leone fondatore della chiesa che sarebbe divenuta la parrocchiale morlupese. Ancora nell’XI secolo, del resto, nel privilegium con il quale Gregorio VII confermò i beni del Monastero di San Paolo, Morlupo e Leprignano risultavano avere lo stesso titolare (il predetto Monastero). Mariani ricorda inoltre che Docibile di Gaeta fu remunerato nell’881 con la donazione del ducato di Fondi per aver lottato contro i Saraceni (op. cit., pag. 80).

Per un curiosa coincidenza, era ravennate anche quel Barone Argelli che nel 1893 acquistò i beni e i diritti i quali, in seguito all’applicazione della legislazione eversiva dell’asse ecclesiastico, erano stati espropriati al Monastero di San Paolo in Leprignano ed avocati al Demanio dello Stato, per essere poi venduti all’asta e in quella sede comprati da Giannuzzi e Del Papa, pervenendo poi all’Argelli.          

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